Il ddl “Salomone” (d.d.l. 832/2023) vuol fare dei minori proprio quanto il saggio re biblico ha impedito, vale a dire tagliarli a metà.
Si tagliano a metà i bambini per compiacere padri non disposti a riconoscere di non essere più
padroni.
Si tagliano a metà i bambini preferendo non vedere la violenza in cui ci si costringe a vivere.
Si tagliano a metà i bambini pur di non concedere spazio e libertà alle loro madri.
Si tagliano a metà i bambini fingendo che nelle famiglie separate i padri possano assolvere i
compiti di cura domestici che in quelle unite relegano le madri ai margini del mondo del lavoro.
Si tagliano a metà i bambini pur di non riconoscere l’importanza del ruolo materno e delle cure
che pur la società continua a chiedere siano elargite, gratuitamente, dalle donne.
Si tagliano a metà i bambini pur di non pagare, per quelle cure “gratuite”, una somma mensile alla
loro madre.
Si tagliano a metà i bambini pur di non lasciare alla madre la casa familiare.
Si tagliano a metà i bambini sostenendo che questa sia l’essenza e la realizzazione dell’affido
condiviso, che invece ha bisogno di essere articolato dal giudice in ogni singolo caso, sulla base
dell’esperienza concreta di ciascuna famiglia che si separa.
E’ in queste settimane diventato attualissimo (da ultimo si è pronunciata negativamente la garante per
l’Infanzia Marina Terragni 1 ) il dibattito sul disegno di legge n. 832/23 2 , presentato nell’agosto 2023 da esponenti della maggioranza con l’intento di spazzare via le conquiste faticosamente raggiunte negli ultimi anni (in particolare a far data dalla istituzione della commissione d’inchiesta sul femminicidio, che sotto la presidenza della senatrice Valente ha fatto un ottimo lavoro di studio, coordinamento e rilevazione delle principali storture che affliggevano e affliggono le decisioni giudiziali assunte in tali campi) non solo in materia di affidamento, collocamento e mantenimento dei figli minori nella crisi familiare ma anche, a monte, nella predisposizione e diffusione di strumenti giuridici e processuali capaci di far emergere la violenza che a quella crisi porta (o nella quale tale crisi è maturata negli anni).
Ovviamente la facciata del ddl è dipinta assai diversamente e assai subdola, in particolare, risulta
l’omissione di qualsiasi riferimento all’assegnazione della casa familiare, che nell’intento dei parlamentari firmatari del disegno dovrebbe letteralmente scomparire dal firmamento giuridico.
Ma ancor più grave risulta il tentativo di confondere il grande pubblico, allegando come principio generale dell’affido condiviso quello che ne è un’applicazione particolare, cioè il collocamento paritetico. Affido condiviso, diversamente da quanto protestano i sostenitori del disegno di legge, non vuol dire affatto pariteticità – cioè perfetta parità – dei tempi che ciascuno dei genitori trascorre, dopo la separazione, con i figli, a meno che tale particolare assetto del collocamento (altro concetto che il disegno di legge trascura e disdegna, preferendo sottrarre ai minori il domicilio – unico – cui essi, come tutti i soggetti di diritto, devono e hanno diritto ad avere) non sia fondato da abitudine alla cura, turni di lavoro compatibili, relativa vicinanza tra le nuove abitazioni e capacità dei genitori di confrontarsi civilmente. Difettando uno o più di questi aspetti il collocamento paritetico diventa una formula vuota che dà l’impressione di avere risolto un problema (l’impatto della crisi familiare sui minori) senza averlo nemmeno affrontato. Non è vero che il collocamento prevalente presso l’uno o l’altro dei genitori sia di per sé ingiusto, anzi: sta proprio al giudice 1 Audizione del 9 aprile 2025, vedasi https://www.garanteinfanzia.org/proposte-e-pareri visitato in data 26 aprile 2025
2 https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/REST/v1/showdoc/get/fragment/19/DDLPRES/0/1446603/all
decidere come l’affido condiviso e il collocamento dei minori si declinano nel caso particolare rappresentato dalla famiglia che gli si rivolge per vedere disciplinata la sua situazione. Il giudice è chiamato, dalla nostra legge costituzionale e comunque dall’impianto dello stato di diritto propriamente detto, ad adattare la legge ai casi concreti che sono devoluti alla sua cognizione: altrimenti, per vedere applicato indiscriminatamente e rigidamente il collocamento paritetico come pretende questo disegno di legge (che qui rivela il suo carattere più squisitamente arbitrario e diritticida), basterebbe rivolgersi a un semplice ufficio amministrativo – diretta emanazione, e qui stanno insieme il monito e il pericolo, del potere esecutivo.
Altro errore di impianto è quello di vedere indicato, come unico principio informatore della decisione da assumere, quello di bigenitorialità, che si dà per assoluto: mentre assoluto (e niente affatto vuoto) è il
diritto inviolabile del minore ad essere rispettato come soggetto (art. 2 Cost.): prima di tutto nella sua
incolumità psicofisica, evitandogli situazioni dannose o pericolose; poi nel suo diritto a svolgere la sua
personalità secondo le migliori opportunità per il suo necessario sviluppo, auspicato come pieno dall’art. 3 della Costituzione. E se i genitori non sono in grado di reperire autonomamente le modalità con le quali
articolare quello sviluppo e il proprio rapporto con i figli (e reciproco), interverrà il giudice, chiamato non a fornire soluzioni prestampate (verrebbe meno alla sua funzione), ma al contrario specificamente pensate
per e nel migliore interesse di quei minori, in quella data situazione.
Questa prevalenza arbitraria del principio di bigenitorialità su tutti gli altri (come quella del collocamento paritetico rispetto a tutti gli altri) mostra la semplificazione ideologica di cui si nutrono gli enunciati del disegno di legge in esame, chiamati a (ideologicamente) contrastare approdi della giurisprudenza che hanno messo in chiara difficoltà una concezione patriarcale della famiglia che si vorrebbe restaurare dalle fondamenta, vale a dire dallo stesso diritto alla separazione. Il disegno di legge n. 832/23 rende infatti più difficile separarsi, in particolare per il genitore più debole economicamente (nella grande maggioranza quello che prende la decisione di chiudere il rapporto), che vede:
- allontanarsi nel tempo il momento in cui il giudice può, mancando l’accordo, disporre le regole volte a disciplinare la vita di genitori e figli, atteso che prima di quel momento (e della soluzione almeno temporanea della crisi familiare in essere) saranno necessarie (a nulla valendo le allegazioni di violenza, in contrasto con il dettato della Convenzione di Istanbul e della legge nazionale attuale, perché vengono asetticamente menzionate l’urgenza o il grave e imminente pregiudizio per i minori) la mediazione prima e poi la fase relativa alla individuazione del piano genitoriale (magari con l’ausilio di un coordinatore genitoriale – come la mediazione, a spese di chi?);
- eliminata la possibilità di poter, in difetto di accordo con l’altro genitore, rimanere nella casa familiare insieme ai figli che siano collocati presso di lui in ragione della valutazione complessiva del caso concreto (l’assegnazione della casa coniugale verrebbe cancellata);
- tramontare l’idea che la violenza endofamiliare sia considerata, oltre che causa della separazione, motivo di provvedimenti volti a tutelare, da chi la esercita, gli altri componenti della compagine familiare.
La visione patriarcale della famiglia (e della società) è infatti in particolare infastidita dal riconoscimento della violenza quale matrice dei rapporti e ruoli c.d. “tradizionali” che in essa sono riproposti: non solo fisica, ma anche psicologica, economica, simbolica. Tale violenza, quando riconosciuta e indagata, impedisce, se correttamente e articolatamente! Non per schemi standardizzati) disciplinata in sede giurisdizionale, di perpetuare assetti (anche solo relazionali ed economici) che presuppongono la superiorità (la maggiore autorità, il maggior potere economico) di un genitore sull’altro e quindi il perpetuarsi dello schema patriarcale, antidemocratico in quanto tale; ed ecco perché il disegno di legge c.d. “Salomone” evita di parlarne e di ritenerlo argomento rilevante ai fini della regolamentazione della crisi familiare, che dovrà invece solo stabilire che i figli, dato che hanno il 50% del DNA di ciascuno dei genitori, dovranno trascorrere il 50% del loro tempo con ciascuno di essi.
Non diversamente, ma sempre nell’ottica di dare supporto a uno schema patriarcale (fortunatamente, ma
bisogna sempre stare all’erta) in sofferenza, opera la disposizione per la quale sarebbe ipotesi residuale
quella in cui sarebbe disposto l’assegno per il mantenimento ordinario dei figli, oggi misura di default
destinata:*ad assolvere alle loro esigenze di base cui il genitore più debole economicamente non può fare
autonomamente fronte (si pensi al costo degli spazi abitativi, al vitto, alle utenze); *a perequare
(nell’interesse dei minori, perché non abbiano a vivere realtà troppo diverse con l’uno o l’altro genitore) le
differenze patrimonial-reddituali dei genitori; *a compensare il lavoro di cura. L’inversione dello schema
che il ddl opera a vantaggio del mantenimento diretto “per capitoli di spesa” (l’assegno c.d. perequativo
rimanendo “eventuale”, ove fosse necessario per integrare il principio di proporzionalità) non solo è un
assist evidente alla conflittualità (si prevedono contributi eventuali da erogarsi per capitoli di spesa, di
individuazione necessariamente consensuale, eventualmente a valle di un percorso condotto con un
coordinatore genitoriale in ragione delle specifiche attività e dei tempi che ciascuno dei genitori trascorre
con i figli) ma è evidentemente volto a orientare la percezione del giudice e del cittadino rispetto alla
necessarietà dell’assegno di mantenimento ordinario (qualificandolo eventuale si induce la considerazione
per la quale nella maggior parte dei casi le posizioni redditual-patrimoniali dei due genitori siano
sostanzialmente paritarie, il che, per quel che ci dicono i dati statistici, non è affatto) oltre che a
rigidamente regolamentare l’autonomia di spesa del genitore economicamente più debole e,
implicitamente ma neanche troppo, a sminuirne radicalmente il ruolo genitoriale. Ancora, e prestando
ancora orecchio alle associazioni di padri separati, voce certo non maggioritaria ma dal forte impatto
mediatico e quindi, di questi tempi, individuata dalla maggioranza come latrice di istanze condivisibili, con il disegno di legge si chiede di inasprire le sanzioni da comminare ai genitori inadempienti alle regole
sull’affido condiviso: regole che però, pur al netto della minore propensione alla lotta giudiziale di chi è
economicamente più svantaggiato, spesso e volentieri riguardano omissioni del contributo economico o
renitenza all’espressione di consensi necessari alle cure mediche dei figli, più che il qui lamentato
conculcamento di ruolo genitoriale da parte del genitore che ha visto collocare presso di sé i figli minori.
Altre disposizioni del disegno di legge che trasudano paternalismo sono quelle pretesamente dedicate alla tutela della donna non coniugata che partorisca. Le norme che si vorrebbero introdurre non hanno
sostanzialmente ragion d’essere, atteso che viviamo fortunatamente in un paese in cui l’assistenza al parto
è nella stragrande maggioranza dei casi gratuita e che già prevede il concorso (proporzionale, come è giusto che sia, alle rispettive sostanze e non paritetico, come il ddl vorrebbe introdurre, cioè, se ben capiamo, al 50%) di chi sia genitore di provvedere economicamente al mantenimento del figlio. Quanto all’aiuto che “il padre” dovrebbe fornire alla puerpera, sia permesso dubitare dell’efficacia di una norma che afferma un dovere immediato a carico di un soggetto (“il padre”) che ci vorrà diverso tempo dalla nascita del figlio a veder accertato come tale (se invece quel soggetto già si consideri e si comporti come padre, la norma è evidentemente superflua). Dietro lo schermo di una norma a pretesa tutela della donna, sta in agguato la rivendicazione di un ruolo preciso di chi concorra alle spese del parto e al mantenimento della puerpera nelle scelte che attengono alla gravidanza. Comunque la si pensi in tema di I.V.G., è indubbio che coinvolgere il presunto padre in decisioni che non attengono al suo corpo e al suo destino (più profondamente segnato è in genere il destino della madre rispetto a quello del padre) pone questioni e scelte che non possono essere risolte in una sede liminare ed eventuale come il disegno di legge che ci occupa, non quando la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza è tale anche in esito a una consultazione popolare che ha segnato profondamente lo statuto laico di questo paese.
Utile risulta la disposizione che prevede la possibilità per il genitore non inadempiente di rivolgere all’altro, per conto del figlio maggiorenne ma non economicamente autosufficiente, domanda di contribuire al mantenimento di quel figlio, che l’attuale normativa indica invece (con deroghe ed eccezioni nella pratica) come unico legittimato. Non è invece sintomo di una visione realistica (ma serve ad esautorare, nella più gran parte dei casi, il materno) la previsione per la quale, in difetto di diversa determinazione del giudice, il contributo al mantenimento va versato nelle mani del beneficiario (il figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente). La spinta a non riconoscere al genitore che del figlio si prende cura il ruolo che esercita fa preferire il coinvolgimento di quel figlio nella gestione delle spese che, pur riguardandolo, vengono sostenute dai genitori e che coerentemente tra di essi andrebbero regolate.
In conclusione: questo disegno di legge parte da un assunto di per sé sbagliato, che è quello di fare di un
caso molto particolare e circostanziato nei presupposti (il collocamento paritetico) la regola generale,
tendenziale e a tutti i costi preferibile dell’affido condiviso. Così non è, e sottrarre ai giudici la
discrezionalità che proprio in questi ambiti impone di valutare le specificità del caso concreto non è
soluzione costituzionalmente orientata e – nel concreto – porta a comprimere indebitamente proprio il
diritto dei minori di rapportarsi con i propri genitori nel modo più adatto e quindi proficuo. Pensare di
risolvere i conflitti familiari dividendo i figli a metà tra i genitori, senza prendere atto delle realtà –
specifiche ma anche sociali e collettive – che quei conflitti alimentano è frutto di una visione semplicistica
che sottovaluta il problema e non lo risolve, rendendo (pare questo il fine ultimo del ddl) più difficile la
strada della separazione, se chi la chiede è il soggetto più debole economicamente.